Il Cassonetto
Ogni singolo cassonetto, zummato a tutto campo a invadere la tela o inscritto ai bordi di una strada ma anche rovistato da una mano, diventa nelle inquadrature di Aurelio Bulzatti altro da se. Il bianco e il rosso schietto delle strisce laterali invece che identificarlo come unto contenitore di avanzi di vita, qui, squillano a celebrare “l’onnipotente indistruttibilità della rovina”. I saccheti di plastica, gli ex indumenti appallottolati, la frutta vecchia o la mollica secca del pane avanzato delimitano un campo di non esistenza, esaltano indecentemente la non volontà. I cassonetti, tutti, che dipinge Aurelio Bulzatti, spargendoli nella città, sono eretici monumenti al troppo pieno.
“Io non voglio” sembra dire la zingara o chi per lei si butta a frugare a capofitto e, dopo aver soppesato ogni scarto, afferra il suo bottino di primarie necessità allontanandosi indifferente verso la sua anonima disidentità. Bulzatti trova e raffigura l’inconsapevolezza del perfetto proprio in questa zingara ignara e ben piazzata che tiene per mano la sua bambina. Nella stilizzazione stabilissima –uso trattenuto del colore, negazione di ogni voluttà virtuosa, fermezza nel rifiuto dell’aneddoto.
Il ciclo/cerchio dei cassonetti rivela a chi non si accontenta di pattinare sulla tela un ronzio batteriologico come se una sottopopolazione linfocitaria lottasse contro un’infezione che attacca l’io, ormai autoimmune, facendolo crescere a dismisura. Davanti al troppo pieno, al troppo immenso carico dell’io, questo artista si fa scomparire e dietro la regale miserabilità, dei suoi cassonetti si intuisce un pennello che è occhio e orecchio, una mano chirurgica che tenta/cerca , in silenzio, di ridare una proporzione.
Maria Silvia Farci