Anche il dio di Aurelio Bulzatti è, come quello della scrittrice indiana Arundhati Roy, un dio delle piccole cose. Questo lo si pensava guardando le sue opere di una decina di anni fa, tele in cui la pittura si faceva preziosa e mostrava tutta la sua sensualità.Ma lo si pensa ancora di più oggi che i suoi soggetti sono cambiati e la figura umana è ormai tema privilegiato dei suoi dipinti. Un dio delle piccole cose sembra custodire questi incanti stupefatti, dominare gli spazi allucinati, luoghi universali e irriconoscibili, frammenti di quelle periferie che Tullio Kezich ha chiamato qualche anno fa “il Quartiere Bulzatti”.Direi che alla base di questa mostra romana di Aurelio, di queste sue dieci opere realizzate nel ‘ultimo anno, stia proprio l’idea del cammino.Cammina risoluta, come chi sappia dove andare e abbia la forza di condurre altri con sé, la figura maschile che ha compiuto la sua Via. Arriva da lontano, ci dice l’anonima infilata di finestre e pilastri che la circonda. Sembra venire verso di noi, quasi uscire dal quadro, grazie ad uno straordinario effetto di luce, quel particolare modo di mettere a fuoco le immagini dentro quegli spazi notturni di cui Bulzatti da sempre è maestro.Questa figura singolare, così ben risolta in un contrasto di leggerezza e potenza volumetrica per cui, infine, sembra pesare più degli edifici che ha intorno, ha avuto una lunga gestazione.Bulzatti ci mostra il suo cammino. Ha ripercorso con noi la strada. Come facendosi spiare dentro lo scrigno segreto del suo procedere interiore. Così queste piccole serie di due o di tre dipinti esistono come singoli quadri ma anche come note, accordi di una stessa partitura.
La prima versione de La Via era dominata da un cielo rosso e visionario, spettrali luci artificiali e una figura che si aggirava allucinata e incerta. Incerta la sua connotazione sessuale, incerti i suoi abiti, la sua stessa consistenza a metà tra il folle, il viandante e il fantasma, incerto il suo incedere lungo la strada di un paesaggio urbano qualunque. Inquietante e precaria, ci comunicava un senso di angoscia per quel suo destino che ci appariva pieno di pericoli (e se proprio ora passasse una macchina? Ecco i l plot, tutto cinematografico che a volte, improvvisamente, questo pittore del silenzio e dell’ immobilità riesce a comunicare). Nella versione successiva – e questo è avvenuto anche negli altri dipinti – Aurelio ha agito per via di levare. Via insegne, striscie stradali, cieli infuocati e scipioneschi. Via il taglio diagonale, via la caratterizzazione così violenta della figura. Così il grande dipinto è completamente dominato da un’immagine maschile, sicura – solenne nella sua pacatezza – che raccoglie le luci, quella del sole e quella della luna, che, nascoste, lo investono dai lati. E gli edifici diventano irreali, quasi quinte di cartone, scenografie con un solo compito: quello di inquadrare e di spingere fuori la figura. Di incitarla a camminare ancora. Perché viene voglia di seguirla.La stessa operazione di sintesi e di eliminazione di dettagli e di citazioni (che spesso sono anche citazioni di se stesso), Bulzatti la mette in atto dipingendo la figura che dorme sotto una statua antica. E qui ecco due dei grandi amori dell’ artista: la scultura classica, sulla quale Bulzatti costruisce le sue figure, e Giorgio De Chirico (poi ci sono Mafai, Morandi, Crespi, come è già stato detto da altri). Il Grande Metafisico è evocato, anzi è ripreso alla lettera, nella prima versione del dipinto: la figura femminile di marmo distesa, il muro di mattoni di sbieco sulla destra, il cielo azzurro macchiato da lunghe nuvole bianche. L’unica immagine tutta bulzattiana è l’uomo addormentato. Ma lo notiamo alla fine, tale è la tendenza dell’occhio a soffermarsi su ciò che è noto, riconoscibile, definitivamente impresso nella nostra memoria.Ecco che Bulzatti elimina tutto questo, avvicinando il punto di vista, per poi riallontanarlo ancora, schiarendo e uniformando i toni. Così la centralità del quadro è conquistata dall ‘unico elemento che non segue il ritmo orizzontale nuvola-sarcofago-uomo che dorme: il serpente. Che forse ha appena morso Cleopatra, ma sembra riemergere con energia dal suo grembo. Vita e morte, sole e luna, sonno e veglia:Bulzatti mette in scena l’armonia e la necessità dei contrasti. Ancora più evidente il processo di semplificazione appare nella figura che Aurelio ha chiamato Beato. Nell’ultima versione del dipinto è rimasto solo lui con una ciotola e un libro poggiati ai suoi piedi (ancora il dio delle piccole cose, e tracce del vecchio Bulzatti). Anche la tavolozza sembra essersi come essiccata: grigi, marroni, colori della terra.Inizialmente Aurelio aveva inserito un passante – colui che non si ferma, non guarda e dunque non può conoscere. Era l’unica figura estranea in composizioni che raccontano solitudini. Era dunque naturale che scomparisse. Sono giganteschi eroi solitari i protagonisti di questi quadri, quasi che Bulzatti abbia portato alle estreme conseguenze quel senso di estraneità, quegli sguardi che non si incontravano mai, già presenti nelle opere precedenti.Ed è davvero sola anche la figura femminile che fa corpo con la Notte. Non cammina, non dorme, non medita. Ma è nell’intimità segreta della sua stanza che riesce, quasi con la pelle, a percepire il mondo. Chiude gli occhi. E in silenzio rabbrividisce.
Lea Mattarella